I licenziamenti d'opinione sono sempre più frequenti. Il caso più noto è quello dei cinque operai di Pomigliano (i fatti sono raccontati qui da Ascanio Celestini). Ormai il licenziamento d'opinione sembra entrato a far parte dell'ordinamento giuridico. L'ultimo caso riguarda un'autista dell'Atac a Roma, la sindacalista Micaela Quintavalle licenziata per aver criticato pubblicamente i programmi di manutenzione degli autobus.
Sia ben chiaro, non esiste alcuna norma che consente di licenziare il lavoratore per aver espresso opinioni non gradite al padrone e non c'è neanche una norma che consente di licenziare chi si lamenta di illegalità o abusi o carenze o pericoli che esistono all'interno dell'azienda. In caso di diffamazione si può sporgere denuncia, ma se i fatti sono veri dovrebbe prevalere la sacrosanta libertà di parola.
Nel codice civile questo tipo di licenziamento non potrebbe starci, sarebbe contrario ai principi della Costituzione, non solo al principio che sancisce il diritto di parola (art. 21) o di manifestazione del pensiero, ma anche al limite dell'utilità sociale imposto ad ogni tipo di attività economica che non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana (art. 41).
Un giudice che non sia quello della favola di Pinocchio non esiterebbe a far revocare la licenza di commercio a qualunque azienda che mette in pericolo la vita delle persone o mette in atto pratiche umilianti. E' una banale questione civiltà. Invece accade il contrario e ormai la lista è molto lunga, posso citare solo alcuni casi:
Micaela Quintavalle (autista Atac) licenziata pochi giorni fa a seguito di un'intervista al programma televisivo Le Iene in cui collegava i casi di incendio e di guasti negli autobus di Roma alla cattiva manutenzione degli stessi;
I quattro ferrovieri licenziati per le dichiarazioni rilasciate ai giornalisti della trasmissione televisiva Report dell'ottobre del 2003 in cui confermavano alcune carenze nei controlli sulla rete ferroviaria - (Vito Belfiore è stato poi reintegrato);
Dante De Angelis (macchinista delle ferrovie e rappresentante per la sicurezza) licenziato a seguito delle dichiarazioni rilasciate ai giornalisti di Report;
Massimiliano Travaglini (rappresentante Fim-Cisl alla Sevel di Atessa) licenziato in tronco perché il 24 aprile 2007 distribuì volantini con rivendicazioni sindacali davanti ai cancelli della fabbrica;
Alex Villarboito (responsabile sicurezza presso la Sacal) licenziato per aver descritto ai giornalisti le carenti condizioni di sicurezza dello stabilimento (successivamente reintegrato);
Rosa Grazia Arcifa (funzionario dell’Agenzia delle Entrate, in servizio a Pavia) è stata licenziata nel 2010 per aver scritto commenti critici in un blog;
Riccardo Antonini (ferroviere addetto alla manutenzione dei treni e consulente CGIL al processo per la strage di Viareggio) licenziato nel 2011 dalle Ferrovie per aver confermato le carenze che portarono al disastro;
Enrico Ceci (impiegato del Banco Desio di Parma) licenziato per aver denunciato carenze nell'applicazione delle norme antiriciclaggio.
Andrea Franzoso (funzionario delle Ferrovie Nord) licenziato nel 2015 dopo aver denunciato sprechi e ruberie all'interno dell'azienda;
Alcuni di questi licenziamenti, spesso collegati a varie forme di mobbing, riguardano casi di whistlebower, cioè persone che hanno avuto il coraggio di denunciare gravi abusi o veri e propri fenomeni di criminalità. Il denunciante (whistlebower) dovrebbe essere protetto dalla legge perché aiuta la collettività ad individuare e a punire le illegalità. Va premiato, non punito. Una recente legge ha introdotto una protezione per i denuncianti, ma la legge si applica solo alla pubblica amministrazione, le aziende private restano ancora libere di licenziare i dipendenti scomodi (e chi denuncia è sempre scomodo).
Il caso del licenziamento d'opinione è un po' diverso, riguarda quei casi in cui non c'è un reato da denunciare, ma solo un fatto da raccontare o un giudizio manifestato rispetto a certe scelte o a certi comportamenti che riguardano l'azienda. Il caso più emblematico è proprio quelli dei cinque operai di Pomigliano d'Arco che avevano inscenato una rappresentazione satirica per commemorare la morte di alcuni operai dello stabilimento. E' il caso che ha ispirato l'appello contro i licenziamenti d'opinione, un appello da leggere e sottoscrivere insieme ai numerosi uomini e donne che l'hanno già fatto, tra cui figure ben note della migliore cultura italiana.
Il licenziamento d'opinione ha ora trovato conferma anche nella decisione della Corte di Cassazione. Credo che sia una decisione che contrasta coi principi fondamentali del diritto perché mette sullo stesso piano il valore della libertà e della dignità umana con l'immagine di un'azienda.
In questa sede purtroppo devo eludere l'altro aspetto della questione: il
limite che si impone alla libertà di parola nel rispetto della dignità
altrui. Nessuno ha diritto di offendere. Gli insulti vanno
giustamente puniti. Ma qual è il confine tra la satira e l'insulto? Il
discorso sarebbe troppo lungo. Se il fantoccio esposto dagli operai
durante la manifestazione era un insulto per qualche persona umana lo si
poteva denunciare come tale. Mi sembra che questo non sia stato fatto. Il
licenziamento fa riferimento alla lesione dell'immagine dell'azienda e
al dovere di fedeltà dei dipendenti.
Cos'è l'immagine dell'azienda?
Il diritto all'immagine è ben codificato, riguarda le persone
fisiche che hanno un corpo e una faccia raffigurabili in una fotografia,
un filmato o un disegno. L'azienda è al più una persona giuridica che
non ha immagine, se non intesa come reputazione, un concetto assai simile a quel bene che gli
economisti chiamano "avviamento", ma attenzione, l'avviamento ha un
valore economico perché ha bisogno di essere costruito nel tempo, la
buona reputazione si deve conquistare, non è e non può essere un diritto.
Le persone fisiche hanno un diritto innato alla dignità (quella che viene usualmente definita come dignità umana), tutte le persone ma le attività imprenditoriali non sono persone, non possono avere questo diritto che appartiene all'uomo. Tra le attività umane ce ne sono di buone e di cattive, ci sono anche attività criminali che vanno represse. La persona giuridica è una fittizia personificazione dell'attività economica svolta da un gruppo, una società, una ditta o un altro ente. E' un semplice simbolo che individua un centro di interessi. Nessuna attività può pretendere di avere e di conservare una buona reputazione a prescindere dal suo modo di svolgersi. Per esempio, se si verifica una catena di suicidi tra i dipendenti di una certa ditta vi sarà una perdita di "immagine" come conseguenza oggettiva dei fatti, ma non si può pretendere di imporre il silenzio sui fatti stessi o di censurare ogni opinione al riguardo (satirica o non satirica) solo per salvaguardare la buona reputazione della ditta. Ciò a prescindere dalle cause e dalle eventuali colpe. Qualche suicidio è stato indotto? vi sono colpe oppure tutti i casi di suicidio avevano motivazioni estranee all'azienda? Comunque sia se ne deve poter parlare e chi ha voglia deve anche poter scherzare su quel che è successo perché la libertà umana è un diritto ed è più importante dell'interesse economico dell'impresa a volersi conquistare una buona reputazione. L'interesse non è un diritto.
Il rischio d'impresa
Facciamo un altro esempio: nella fase di avviamento di un bar può succedere che alcuni clienti senza commettere alcun illecito e pagando regolarmente le consumazioni diventino frequentatori abituali. Nessuno potrà cacciarli o impedire loro di frequentare il pubblico esercizio, ma il fatto di essere antipatici a molte altre persone potrebbe ingenerare una cattiva reputazione al bar. In tal caso i clienti potrebbero essere chiamati a risarcire il danno all'immagine dall'azienda? Di fatto il danno c'è stato, ma un risarcimento sarebbe impossibile perché da una parte c'è la libertà di circolazione delle persone che è un vero diritto, dall'altra c'è un mero interesse che deve sottostare al rischio d'impresa. Non dimentichiamoci che il rischio d'impresa è un principio fondante dell'economia liberale ed è anche l'elemento che giustifica il profitto dell'imprenditore.
Interessi e diritti
La confusione tra diritti (che la legge deve tutelare) e interessi (che possono essere tutelati solo nei casi in cui trovano un espresso riconoscimento) non è nuova. La confusione ha ormai una portata planetaria e trova la massima espressione nelle clausole ISDS (Investor-State Dispute Settlement) inserite in alcuni trattati internazionali. Tali clausole consentono alle società multinazionali che effettuano investimenti in un certo Stato di ottenere un risarcimento dei danni dallo Stato qualora per effetto di modifiche legislative vedessero ridurre i loro margini di profitto. Le decisioni sull'applicazione delle clausole ISDS spetta alle Corti di Arbitrato Commerciale che hanno natura contrattuale e pertanto sfuggono ad ogni tipo di controllo pubblico. Le decisioni vengono prese a porte chiuse e sono inappellabili. Il rischio che uno Stato possa essere chiamato a rimborsare i mancati profitti di una grande impresa multinazionale è tale da condizionare le scelte politiche dello Stato.
La Philip Morris dal 2010 sta utilizzando le clausole ISDS contenute in alcuni accordi commerciali internazionali per rivalersi nei confronti di alcuni Stati (Australia, Norvegia, Uruguay) che hanno intrapreso politiche volte a scoraggiare il consumo di tabacco. Il rischio di impresa, tipico dell'economia capitalistica, viene così annullato perché i trattati sanciscono il diritto "eterno" al profitto della Philip Morris, negando agli Stati il diritto di regolamentare il consumo di sostanze dannose per la salute umana.
Una analoga previsione di diritto al profitto era sancita anche dalle norme italiane sulla privatizzazione della distribuzione dell'acqua, fortunatamente annullate dal referendum del 2011.
Accade quindi che l'interesse di un'impresa a conseguire certi profitti venga riconosciuto dalla legge oppure si possa trasformare in un diritto assoluto e inviolabile in virtù della clausola ISDS e così prevale su ogni altro diritto pubblico o privato dell'intera nazione che ha sottoscritto il trattato. Tutto questo però non è previsto da alcuna norma, si realizza di fatto per la semplice possibilità di configurare su un medesimo piano gli interessi (privati) di un'impresa e gli interessi (pubblici) di una nazione.
La retorica dei diritti umani
Tra le clausole dei trattati internazionali e i licenziamenti dei lavoratori c'è una grande distanza, ma la tendenza sembra essere la stessa: le persone finte (persone giuridiche - soggetti configurabili solo astrattamente) si impongono sulle persone vere (uomini e donne in carne e ossa), l'immagine di qualcosa che non ha né corpo, né immagine, prevale sulla vita e sulla libertà dei cittadini. E dove stanno i diritti umani?
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