14 maggio 2024

Il capitano è morto

 Io capitano è il film di Matteo Garrone premiato col David di Donatello. Racconta una storia di migrazione, terribile e commovente. Ci mostra il giovane Seydou che lascia la sua casa, i suoi amici, la sua mamma, per inseguire il sogno di poter valorizzare il proprio talento musicale. Solo l'Europa potrebbe dargli qualche opportunità. Allora parte per un lungo viaggio, un'odissea che lo conduce dal Senegal alle sponde della Sicilia passando attraverso vari gironi infernali... qui non voglio raccontarlo, è un film che tutti dovrebbero vedere, ma chi l'ha già visto ricorda sicuramente il finale e sa che la storia di Seydou non finisce col film, ci dev'essere anche un dopo.
Il titolo suggerisce qualcosa, ci induce a domandarci se il capitano non possa essere per altri un losco scafista e non debba rispondere lui del turpe mercato di destini umani. Non lo sappiamo. Ma ora guardando in TV i 100 minuti de La7 mi sembra di vedere il seguito che quel film aveva rinunciato a mostrare. 

Il documentario di Chiara Proietti racconta il tentativo di passare la frontiera che divide l'Italia dalla Francia. Per noi è una frontiera aperta per loro è una muraglia invalicabile sorvegliata da guardie armate e sostenuta da leggi implacabili.

Nella realtà Seydou si chiama Ousmane Sylla, è giovane, vispo e capace di farsi apprezzare da tutti, ma per lui non c'è posto. Solo i minorenni hanno diritto ad essere ospitati, allora lui dice di essere minorenne e viene inviato in una casa-famiglia di Cassino, Italia centrale. 

Il documentario ce lo mostra in varie riprese video in cui lui appare allegro e mostra la sua voglia di cantare come nel film di Garrone. Ma nella casa-famiglia gli ospiti sono malnutriti e maltrattati, Ousmane capisce di essere capitato in un brutto posto, vorrebbe protestare, vorrebbe parlare con la sua mamma, si rivolge alle autorità comunali, forse vuol denunciare qualcosa, non ci riesce, si intristisce, confessa di non essere più minorenne. Si illude che facendosi dimettere avrebbe riacquistato un po' di autonomia, invece viene trasportato a Trapani in un CPR  (Centro di Permanenza per Rimpatri) dove i migranti sono reclusi in uno squallido capannone e abbandonati a se stessi. Sono autentici lager. Le condizioni di detenzione sono troppo frustranti, Ousmane è depresso, non riesce a parlare più con la mamma rimasta in Africa e neanche col fratello che è in Francia. Lui è imprigionato in Italia, recluso nel lager e bloccato dalle catene inestricabili di una burocrazia folle.

A descrivere le condizioni disumane del CPR è un altro giovane che ha avuto la sventura di esserci capitato e la fortuna di esserne uscito dopo un mese. Ci racconta che nel CPR di Palazzo San Gervasio gli ospiti arrivano in condizioni normali e diventano relitti umani incapaci di restare in piedi. In quel luogo gestito da un temutissimo ispettore di polizia i migranti vengono sottoposti a dosi massicce di sedativi e psicofarmaci.  

Ousmane ormai non spera più di riuscire a raggiungere la Francia dove suo fratello lo aspetta inutilmente. Chiede di essere rimpatriato in Africa, ma anche questo è impossibile. Il Centro di Rimpatrio non rimpatria. La sua vita da recluso non gli concede alcuna libertà e non offre alcuna risposta alle sue richieste e nessuna speranza. Capisce di non essere mai arrivato in Europa perchè si trova recluso in uno spazio estraniato ed estraniante, dove le nevrosi scoppiano e nessuno lo vede, nessuno può entrarenel lager,  neanche giornalisti o avvocati.

I CPR sono campi di concentramento dove i migranti impazziscono, danno in escandescenze, diventano autolesionisti o aggressivi. L'unico modo per contenerli è la continua somministrazione di sedativi che li annienta. Talvolta si ribellano, rompono i sanitari perché altro da rompere non c'è. A Trapani qualcuno era riuscito ad appiccare un fuoco e provocare un incendio. Ousmane viene trasferito in un altro CPR a Ponte Galeria, vicino Roma. Ormai è fragilissimo, psicologicamente distrutto, rifiuta di restare chiuso in cella, va a dormire all'aperto, al freddo, sul pavimento di un lurido cortile e là durante la notte si impicca ad un lenzuolo legato ai pali del recinto. 

Sul muro della cella aveva scritto le sue ultime volontà. Chiedeva che il suo corpo fosse riconsegnato alla mamma: il proprio cadavere come unico regalo possibile da quel ragazzo buono rifiutato da tutti. La Francia non ha voluto accoglierlo, l'Italia l'ha trattato peggio di un criminale, le sue canzoni gli sono rimaste in gola e di tornare a casa non gli è stato consentito. Di tutti gli inferni che aveva dovuto attraversare quello italiano è stato il più inesorabile. Il nostro sistema di accoglienza l'ha distrutto. Era arrivato pieno di energie e di speranze, è morto solo e disperato nel cortile del lager costruito alle porte di Roma. 

Il suo corpo è stato rispedito in Africa. Al funerale lo piangevano gli amici, la mamma e una sorella. Affetti che lui aveva reciso per cercare fortuna dove c'è solo avidità. Ousmane Sylla, che voleva cantare per regalare al mondo la sua gioia di vivere, è sepolto in Guinea. 

Dopo aver visto questa seconda parte del film, che non è un film e non ha il lieto fine, la sensazione peggiore è il business. Abbiamo costruito campi di concentramento come luoghi di attesa, vuoti di senso, dove gli esseri umani dovrebbero trattenere la propria esistenza in una sospensione di tempo e di vita che diventa una silenziosa tortura. Le risposte degli operatori ci fanno capire che ogni CPR è un laboratorio in cui si replica involontariamente l'esperimento carcerario di Philip Zimbardo: carcerati e carcerieri che non dovrebbero esserlo, ma lo diventano. E' l'effetto Lucifero: gli assistenti si trasformano in aguzzini e gli innocenti reclusi passano dall'umiliazione allo smarrimento fino alla disperazione e alla follia. 
I CPR sono centri di annientamento che diventano fabbriche di follia e ogni fabbrica produce profitti per  tanti italiani, uomini e donne, che lavorano, amministrano, contrattano, prescrivono, dirigono, progettano, guadagnano... nella più assoluta normalità. Assessori, sindaci, prefetti, giudici, medici, assistenti e perfino i lobbisti seduti alle scrivanie dei loro lussuosi uffici svizzeri, tutte brave persone, tutte intente a perpetuare la banalità del male.

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