28 maggio 2006

La mia parola contro la tua

Il processo penale nei confronti di don Giorgio Carli, il parroco accusato di strupro ai danni di una bambina, sembra essere uno di quei casi di processo senza prove,  dove tutto si fonda sulla parola dell'uno contro quella dell'altro. Ne ha trattato Rai3 in un programma dedicato alla giustizia:

1 - l'accusa si basava unicamente sulle dichiarazioni della vittima, non supportate da alcuna testimonianza o riscontro probatorio. Per l'accusa la parola della vittima era sufficiente per condannare l'imputato a 8 anni e 3 mesi di reclusione. La vittima di cui non si conosce un motivo che possa spingerla a calunniare è degna di essere creduta.

2 - la vittima non riferiva fatti appena accaduti, ma fatti risalenti a dieci anni prima, quando lei era solo una bambina. Fatti che aveva dimenticato e che era riuscita a riportare alla memoria grazie ad un trattamento di psico-terapia.

Quindi la questione non è semplicemente quella di credere o non credere alla ragazza, ma di capire se quello che la ragazza dice di aver riportato alla memoria è qualcosa di realmente accaduto o qualcosa che lei crede esserle accaduto.

Si tratta evidentemente di un processo condotto sul limite estremo del valore della parola: la ragazza che accusa è credibile dunque il parroco dev'essere condannato - dice l'accusa - il parroco è altrettanto credibile perciò serve almeno qualche riscontro - dice la difesa.

Ma questo processo, di per sé estremo, senza indizi e senza prove, arriva a mostrare il lato oscuro della giustizia, perché di fronte al sospetto di un accanimento accusatorio da parte della donna P.M. interviene direttamente il Procuratore della Repubblica a sostenere la validità dell'accusa e non lo fa portando finalmente qualche prova o indizio, ma asserendo d'autorità che l'accusa si fonda su indagini condotte con la massima serietà e accuratezza.
In sostanza se l'accusatore si autoproclama serio e scrupoloso non ci sarebbe bisogno di prova!
qui si scopre che l'accusa non è portatrice di tracce o dati raccolti nelle indagini, ma l'accusa potrebbe fondarsi semplicemente sull'autoaffermazione.

Al termine del processo la difesa esibisce una sorta di asso nella manica: una documentazione medica che prova l'esistenza di una particolarità negli organi genitali dell'accusato. Un particolare che la vittima non ha mai nominato, che non conosce e che dunque costituisce una prova d'innocenza dell'accusato: la vittima non avrebbe mai visto ciò che dice di aver visto molte volte con dolorosa chiarezza.

Il processo a questo punto dovrebbe essere finito e il Procuratore dovrebbe porsi il problema dell'eventuale calunnia, invece no: l'accusa è autoaffermazione, non può rinnegare se stessa!

Ecco che l'accusatrice si trasforma in protettrice della presunta vittima, lo fa platealmente nell'abbraccio colmo di delusione e di lacrime tra la ragazza e la donna magistrato. Inoltre il procuratore capo annuncia il ricorso in Cassazione contro la sentenza di assoluzione pronunciata a febbraio 2006. Per don Giorgio non ci sarà nemmeno il riparo della nuova legge sull'inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Contro di lui la giustizia va avanti armata di un ricordo ripescato non si sa come e smentito da tutti.

Talvolta si ha l'impressione che la giustizia colta in fallo, azzoppata da prove insussistenti ed elementi contrari all'accusa, possa diventare come un belva ferita e trasformarsi in un mostro implacabile. Mi tornano alla mente i pubblici ministeri che accusavano Enzo Tortora, più emergevano errori, omonimie, numeri telefonici non verificati, testimoni poco attendibili, più ci si accaniva contro il presentatore televisivo.