7 dicembre 2017

Il tribunale di Antigone

Slobodan Praljak si è ucciso davanti ai giudici del Tribunale Internazionale dell'Aia. L'anziano regista si è offerto ai fotografi e alle telecamere con un colpo di teatro. Si è dato la morte bevendo una fiala di veleno davanti al più vasto pubblico che avesse mai avuto, ma per il Tribunale dell'Aia lui non era un artista, era solo il generale Praljak, comandante delle truppe croate, un criminale di guerra, di una brutta guerra, quella dei Balcani. Per molti suoi concittadini lui fu un difensore del paese dall'attacco dei serbi.

La sua morte ci riporta agli orrori della ex-Jugoslavia, ma riapre anche i discorsi sul diritto-dovere di processare e condannare i criminali di guerra.


Il Post ci offre un profilo di Slobodan Praljak.

Massimo Fini, citando Benedetto Croce, ritiene che il Tribunale dell'Aia sia illegittimo perché condanna sulla base di leggi che non esistono, come fece il Tribunale di Norimberga quando condannò i comandanti nazisti.
Anche allora qualcuno si sottrasse alla pena ingoiando una pasticca di cianuro.
Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituito per giudicare, condannare e impiccare, sotto nome di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni di loro e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra.
B. Croce - Ass. Costituente - 24 luglio 1947

L'ipocrisia denunciata da Croce e ribadita da Fini non riguarda l'eliminazione degli sconfitti, normale atto di guerra, bensì la pretesa di giudicarli. L'unica legge è quella dello Stato che aveva dichiarato la guerra, aveva messo in atto le leggi di discriminazione razziale e così aveva legittimato gli orrori.

Altra legge non c'è?

La presunta ipocrisia del giudicante a me non sembra argomento dirimente. L'ipocrisia è un'ombra che si potrebbe cogliere dietro il volto di ogni giudice. La paura di un potente potrebbe influire sul giudizio, ma questo non dovrebbe farci invocare l'abolizione della giustizia. Dobbiamo piuttosto chiedere che il giudice voglia applicare la legge, senza farsi intimorire, dicendo quel che disse a Norimerga il procuratore capo Robert Jackson.
“Se certi atti e violazioni dei trattati sono crimini, sono crimini sia che siano gli Stati Uniti a compierli sia che li compia la Germania.  Non siamo pronti a stilare una norma di condotta penale contro altri che non vorremmo fosse invocata contro di noi.”
La promessa del giudice Jackson dovrebbe farci ritrovare la stessa esultanza che il mugnaio di Potsdam trovò per il suo giudice di Berlino.  Senza quel Tribunale di Norimberga le vittime innocenti del nazismo non avrebbero avuto alcuna giustizia, avrebbero solo potuto assistere all'epilogo sanguinario della guerra. Invece è accaduto per la  prima volta che una Corte ha rifiutato di  applicare ai nazisti i decreti che s'erano fatti da se stessi per legittimare quei crimini che essi stessi ritenevano crimini, come dimostra il loro perdurante tentativo di nasconderli; per la prima volta un giudice ascoltava la voce di Antigone e si appellava alla coscienza. Era un paradosso che a negare la valenza positivistica della legge fosse il giudice che stava giudicando i principali avversari del positivismo giuridico, quelli che l'avevano rigettato come astruso formalismo. Posti davanti alle loro colpe invocavano i limiti formali della legge scritta, si appellavano a quel principio più volte irriso dal Furher.

La legge va rispettata, anche nel suo valore formale, ma c'è un limite: il legislatore non è l'onnipotente, non può avere potere assoluto, può solo dare forma alle esigenze umane di giustizia.

Sarà anche vero che il Tribunale di Norimberga, come quello di Tokio e come quello israeliano che fu chiamato a giudicare Eichman, non avevano l'autorità per giudicare tutti i crimini della seconda guerra mondiale, ma ciascuno di loro ha fatto qualcosa di molto importante affermando che esiste una legge superiore che si impone anche ai governanti e ai legislatori, quella legge che Antigone invocò davanti a Creonte. Una legge universale che non è scritta nei codici, ma nel cuore.

E' stata Simone Weil a spiegarci che talvolta il bene va perseguito anche ricorrendo alla condanna e alla pena.

La promessa del giudice Jackson fu raccolta pochi anni dopo dal grande filosofo e matematico Bertrand Russell che istituì un tribunale internazionale allo scopo di giudicare i crimini commessi dagli Stati Uniti in Vietnam.

Anche Russell aveva sollevato obiezioni sulla legittimità del Tribunale di Norimberga perché, a suo dire, la condanna dei militari che avevano eseguito ordini contrari al senso di umanità che anche un soldato deve avere, non considerava che nessuna disubbienza sarebbe stata tollerata dai nazisti. Nel giudizio di Russell il nazismo aveva tradito due volte il senso di umanità, l'aveva fatto a danno dei perseguitati mandati a morire senza colpa e l'aveva fatto anche a danno dei propri soldati a cui vietatva di restare umani. Russell in questo modo pronunciava una severissima condanna del nazismo e dei suoi ideatori, poteva assolvere i sottoposti solo perché vittime di una coartazione che somiglia allo stato di incapacità di intendere e di volere. Anche questa è un'opinione che si rivolge al giudizio, ma non può negare l'esigenza di una giustizia che non avrebbe potuto assolvere gli ideatori del progetto politico nazista.

Il Tribunale Penale Internazionale dell'Aia si colloca sullo stesso sentiero, irto di mille difficoltà, che va da Antigone a Russell. 
Su questa strada verso una giustizia globale restano molti ostacoli, ma sta almeno avendo inizio una certa pulizia delle macerie geopolitiche. 
Per macerie geopolitiche si intende questo opportunistico affidarsi alla legge quando serve gli interessi dei potenti e vittoriosi e il suo deciso evitamento e cancellazione ogniqualvolta essa vincoli o censuri il loro comportamento.

Richard D. Falk è professore emerito della cattedra Albert G. Millibank di Legge Internazionale alla Princeton University e Relatore Speciale del Comitato dell’ONU per i Diritti Umani per i Territori Palestinesi Occupati.

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